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Nella canicola di Agosto facciamo punto

Stampa 3D e sostenibilità: un dibattito aperto

“I sostenitori della stampa 3D in ambito casalingo asseriscono che la possibilità di creare oggetti di uso comune può ridurre la sovrapproduzione di determinate classi di prodotti.”
Il caso del piccolo paziente statunitense salvato da una trachea artificiale costruita ad-hoc, riportato dal New Medical Journal a maggio di quest’anno, e – su un versante diametralmente opposto – l’arma in plastica introdotta recentemente nel parlamento israeliano da una troupe televisiva locale, hanno contribuito in modo determinante alla notorietà che stanno acquisendo le tecnologie di stampa 3D presso il “grande pubblico”.
Il crollo quasi verticale dei prezzi delle stampanti 3D (passati in pochi mesi da migliaia di dollari a meno di $500), l’evoluzione di tecniche e tecnologie utilizzate e la scadenza dei brevetti sulle soluzioni di laser sintering (solidificazione di fotopolimeri sotto forma di polvere), sono tra gli elementi che potrebbero rendere il 2014 l’anno del boom del 3D printing.

Le tecniche che ricadono sotto l’etichetta di stampa tridimensionale sono varie e numerose, ma si basano tutte sul processo noto come slicing – la scomposizione del modello originale in “fette”; macchine a controllo numerico riproducono poi in successione ogni “fetta”, solidificando o depositando materiali plastici, intessendo filamenti, incollando fogli di carta ritagliati o scavando blocchi di materiale come legno o gesso, fino ad ottenerne una riproduzione fedele – oggetti fisici utilizzabili in contesti reali. Nate come tecniche per la produzione rapida di prototipi in ambito industriale (il primo brevetto risale al lontano 1987), e basate sul lavoro di dispositivi ingombranti e molto costosi, sono presto divenute oggetto dell’interesse di hacker ed hobbisti di tutto il mondo: perseguendo il sogno di un macchinario in grado di riprodurre se stesso, gruppi di appassionati hanno retroingegnerizzato i principi di funzionamento del rapid prototyping, replicandone gli elementi di base con soluzioni a bassissimo costo. Progetti come RepRap (Replicating Rapid prototyper – iniziato nel 2005) e Fab@Home (stampante multimateriale progettata nel 2006) hanno abbracciato il paradigma dell’open source per rendere accessibili al pubblico schemi costruttivi e software, con l’obiettivo di portare – attraverso un vero e proprio meccanismo virale – la stampa 3D nelle case dei comuni cittadini. Il loro lavoro ha permesso lo sviluppo, da parte di gruppi di imprenditori terzi, dei primi modelli commerciali per uso personale di stampanti 3D, come Cupcake CNC di MakerBot Industries.

Secondo Chris Anderson, ex-direttore di Wired e grande esperto di fenomeni tecnologici, siamo di fronte ad una nuova Rivoluzione Industriale che promette di incidere in maniera profonda su molte delle pratiche di produzione e consumo proprie della nostra società. Dalla personalizzazione di beni prodotti in serie, alla stampa e costruzione di oggetti complessi in ambito casalingo – passando per i recenti pop-up store in grado di stampare qualunque oggetto con qualunque materiale – quel che è certo è che l’impatto della stampa 3D sui correnti equilibri non sarà trascurabile.

Nonostante i rischi legati alla produzione casalinga di armi non individuabili – su cui i media sembrano concentrarsi – e le preoccupazioni concernenti la proprietà intellettuale (la popolare community p2p The Pirate Bay mette già oggi a disposizione i physibles – modelli digitali pronti per la stampa 3D), vi sono problematiche molto più rilevanti legate alle possibili conseguenze negative dell’adozione di massa di queste tecnologie su un settore manifatturiero già in sofferenza.
In contesti urbani, poi, l’affermarsi di modelli che vedono l’abitazione come nuovo centro della produzione di beni rischia di impattare seriamente la generazione e lo smaltimento di rifiuti plastici. Il dibattito è tuttora aperto.

I sostenitori della stampa 3D in ambito casalingo asseriscono che la possibilità di creare oggetti di uso comune può ridurre la sovrapproduzione di determinate classi di prodotti, impiegando solo le quantità di materiali necessarie, arrivando addirittura a ridurre i volumi di plastica destinati alla discarica sfruttando tecniche che permettono di recuperare determinati tipi di rifiuti (fondendoli e trasformandoli in filamenti pronti per il riutilizzo – come il sistema sviluppato dall’83enne Hugh Lyman), ed i consumi di carburante legato al trasporto dei prodotti (soprattutto invenduti e semilavorati). Esperienze analoghe mostrano però le falle di ragionamenti di questo tipo: l’introduzione della stampa digitale è stata accompagnata da speranze del tutto simili relative agli sprechi di carta, ampiamente disattese a causa dell’abitudine – in organizzazioni di ogni tipo e dimensione – a stampare bozze, documenti e mail in quantità.

I detrattori della stampa 3D, oltre a puntualizzare questo paradosso, mettono in evidenza ulteriori elementi di attenzione relativi alla sostenibilità ambientale del nuovo modello produttivo. Uno studio del Department of Civil, Architectural and Environmental Engineering dell’Illinois Institute of Technology di Chicago, ha per esempio mostrato i rischi legati alle tecniche sottrattive di stampa 3D, in grado di generare micropolveri metalliche e plastiche inquinanti e tossiche. Non solo: nonostante le meraviglie mostrate dagli innumerevoli video presenti su Youtube, non tutte le stampanti 3D producono oggetti finiti e “perfetti”; nella gran parte dei casi gli oggetti – in special modo quelli composti da polimeri plastici – devono essere trattati con sostanze chimiche capaci di rimuovere piccoli errori nel processo di stampa e le inevitabili sbavature che comporta. Se, in ambito industriale, vi sono consuetudini e infrastrutture che assicurano lo smalitmento sicuro di questo tipo di sostanze, gli attuali sistemi di raccolta dei rifiuti generati in ambito casalingo sono del tutto inadeguati a mitigarne o prevenirne i danni.
Vanno infine ri-considerati anche i costi energetici: se è certamente vero che si riduce l’esigenza di trasportare grandi quantità di beni in giro per il mondo, vi sarebbe comunque un intenso traffico di materie prime – con risultati probabilmente simili – con ulteriori costi legati alla minore ottimizzazione degli impianti elettrici per uso domestico, rispetto ai più grandi ed efficienti impianti industriali.

da cloudpeople.it

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